Ad Auschwitz si va sempre e solo a sinistra.
Mi ci portò la mia prima mamma adottiva quando avevo poco più di otto anni, era una giornata freddissima e mi ci portò volutamente vestita con abiti leggeri, perché diceva che avrei capito di più.
Non ci fu una volta, in oltre tre ore di visita, che la guida del museo del campo di sterminio nazista abbia detto di andare a destra. Anzi, una volta lo disse, cioè alla fine della visita, quando ci portò ai resti dei forni crematori di Birkenau o se preferite Auschwitz II. D’altra parte andava così anche nella realtà del campo di sterminio. Appena scesi dai treni merce c’era la prima selezione: se il medico SS indicava a destra era la camera a gas per i più deboli, a sinistra la morte più lenta nelle baracche.
“Qui sono state ammazzate un milione e trecento mila persone, di queste oltre un milione e cento erano ebrei”. Disse “ammazzate”, non un generico “sono morte”: “ammazzate”, punto. E guardandoci negli occhi snocciolò i numeri: ebrei, polacchi, prigionieri sovietici, rom, intellettuali critici, partigiani, omosessuali e molti altri.
E io guardavo ma non capivo. Non riuscivo a immaginarlo. Vedevo tutto. Avevo tanto freddo, vedevo quel che restava, quel che era stato ricostruito, le tonnellate di capelli, i quintali di occhiali, le divise macilente, le foto dei forni crematori in funzione, le perle di zyklon B (il gas letale), le baracche, vedevo ma non riesco a figurarmelo e continuavo ad avere freddo.
E mi accorgevo che superava la mia comprensione perché finiva sempre male e sempre senza un motivo accettabile, umanamente accettabile. Se eri la mamma che scendeva dal treno con i suoi bimbi e il neonato in braccio e non volevi separarti dai tuoi piccoli, morivi. Se eri un uomo con il bastone morivi. Se eri piegato da un viaggio di una settimana in un vagone merci, morivi. Se alla SS dicevi di avere tredici anni, morivi. Se il tuo treno era il quinto ad arrivare a Birkenau, morivi. Tu arrivavi qui e morivi e non c’era un perché. Morivi perché eri diverso e morivi perché ingenuamente ti fidavi della SS che, nello spogliatoio della camera a gas ti diceva di ricordarti del numero di gancetto a cui appendevi i vestiti perché poi li avresti dovuti riprendere. Ma il poi non ci fu mai. Morivi settecentomila volte.
Ma mettiamo invece che la selezione la superavi. Morivi, insieme ad altri cinquecento mila, ma lo facevi molto più lentamente di quelli finiti subito nelle camere a gas. Morivi di fame dopo solo sei mesi di prigionia. Sei mesi dove non eri più una persona, ma una cosa con un numero tatuato sul braccio sinistro. Le donne sopravvissute pesavano tra i 23 e i 35 chilogrammi, alcune morirono perché diedero loro un pasto normale e il loro corpo non seppe assimilarlo. I sopravvissuti, già perché qualcuno è sopravvissuto.
I sopravvissuti italiani più famosi li conosciamo tutti. 174.517 era la matricola di Primo Levi. Lo ha scritto chiaro e tondo nei suoi libri che è rimasto in vita solo per caso, per fortuna. Dei 650 con i quali arrivò da Fossoli, si salvarono in venti. 75.190 è il tatuaggio fatto sopra il polso sinistro a Liliana Segre, fa parte dei 776 ragazzini italiani arrivati ad Auschwitz quando non avevano ancora quattordici anni, lei e altri ventiquattro sono sopravvissuti.
Il sopravvissuto lo riesci ad immaginare. Ne conosci il volto. I morti, alcuni, li conosci qui. Le foto nei “pigiami” a righe. Ma sembrano lapidi. Sembra un cimitero. Invece questo non è un cimitero, è un massacro. Un massacro di dimensioni tali che la parola non esiste e, anche se ti ci vuoi rifugiare in quella che sembra coniata apposta, la puoi sentire, ma non comprendere. È troppo.
Anche oggi, che non sono più una bambina, posso cercare di immedesimarmi quanto voglio per cercare di comprendere, ma io non sono una deportata. Io non sono una condannata a morte. Io qui non ci sono finita. E quindi, inequivocabilmente io sto dall’altra parte del filo spinato. Di quel filo spinato elettrificato così tanto che alcuni, esausti, vi si attaccavano per suicidarsi.
È facile oggi dire da che parte sarei stata. Mi sarei chiesta come mai scomparivano i miei compagni di scuola? Avrei aiutato qualcuno a fuggire? Avrei avuto il coraggio di nasconderlo? Mi sarei rifiutata di essere il macchinista di un treno del binario 21?
È evidente che non c’è risposta o non abbastanza convincente.
Il 27 gennaio del 1945 i sovietici entrarono ad Auschwitz e trovarono poco meno di ottomila prigionieri. Gli altri sessantamila erano stati obbligati dai nazisti ad una marcia di centinaia di chilometri verso altri campi, in giornate a meno dieci, avevano pochi stracci addosso e zoccoli di legno ai piedi, morirono in quindicimila. Volevano nascondere le tracce della loro disumanità.
Ecco spiegato perché la mia prima mamma adottiva mi fece venire vestita con abiti molto leggeri, per capire di più.
Il 27 gennaio è la giornata della memoria. Io il così detto “Tribunale della Storia” lo immagino con gli occhi inquisitori dei miei figli e magari domani dei figli dei miei figli, pronti alla domanda che io non ho saputo fare.
“Those who do not remember the past are condemned to repeat it” (“chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”) è la frase di George Santayana all’ingresso di uno dei primi blocchi di detenzione che si visitano.
Ogni 27 gennaio io di quello che è stato e di quello che è cerco di avere memoria, ma, persa tra le piccolezze mie, non sono poi così sicura di riuscirci.
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