La leggenda della “meritocrazia”


La meritocrazia è una distopia. Nel senso più stretto ed etimologico del termine. 

Quando Michael Young, nel 1958 pubblicò, non senza difficoltà, il suo “The Rise of the Meritocracy”, nelle intenzioni dell'autore il racconto doveva rappresentare l'evoluzione dell'Inghilterra del 2034, una società nella quale la tradizionale divisione in classi della popolazione veniva sostituita con una divisione basata sul merito, definito dalla combinazione di intelligenza e impegno.

Ma cosa intendiamo esattamente per merito? Aver superato il concorso? Aver preso la laurea? Essere diventato notaio, chirurgo, deputato? Essere ricco, di successo e bello? 

Ecco, giudicare il merito sulla base dei risultati è chiaramente una scorciatoia

Un bel principio applicato decisamente male. E, si sa, in questi casi i costi sono sempre maggiori dei benefici. 

Se applichiamo acriticamente la retorica della meritocrazia che ci porta a pensare che dobbiamo premiare, socialmente, economicamente, politicamente, chi ce l'ha fatta, il passo successivo è l'equivalenza per la quale premiare chi ce la fa implica punire chi, invece, non ce la fa. 

Se manchi la promessa di Obama secondo cui «chi ci prova ce la fa» e tu non ce la fai, allora vuol dire che, in fondo, non ci ha provato abbastanza e la colpa del fallimento è solo tua. Ma sappiamo tutti che quanto detto da Obama non è affatto vero e questo schema mostra i primi segni di malfunzionamento.

Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con forza qualsiasi criterio diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del valore della persona, riconoscendolo come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, ricorda Trentin (giornalista e sindacalista):

“Con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al ‘merito’… ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il ‘sapere fare’, valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale”.

Come rammenta lo scrittore Christian Raimo, negli ultimi 10-15 anni, da quando il concetto di merito e di meritocrazia sono diventati mainstream, si è accumulata – in Italia e all’estero – una bibliografia ormai corposa che ne ha smontato molti dei falsi presupposti teorici, che lo rendono un’arma retorica vischiosa e strumentalizzata, da cui molti leader politici si sono allontanati nel tempo (è il caso dell’ex presidente Barack Obama, che ha dovuto rivedere pesantemente il sistema meritocratico della scuola americana, o quello della riforma – sempre scolastica e sempre meritocratica – dell’insegnamento inglese negli anni Novanta).

Il mito della meritocrazia, dunque, assurto come principio ordinatore di una società giusta, è, in realtà, se denudato di tutta la sua enfasi retorica e delle sue contraddizioni interne, nient'altro che la legittimazione morale della diseguaglianza. Al fondo si basa su due assunzioni, verosimili, ma false entrambe: la prima, che i meriti individuali siano evidenti, facili da identificare, classificare – tu più, tu meno - e da ricompensare. La seconda, falsa anch'essa, che il mercato, e, più in generale, la logica della competizione, sia il meccanismo più efficace nel riconoscere e premiare tali meriti.



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